Il linguaggio, si sa, è in continuo movimento: ogni anno si arricchisce
di centinaia di vocaboli, mentre altre centinaia muoiono e altre migliaia,
invece, continuano a esistere con fortune alterne, alcuni sempre in auge, altri
poco usati e altri ancora vicini all’estinzione.
La vita dei vocaboli, in questo, somiglia alla vita delle persone nelle
varie società: vi è chi nasce, chi muore, chi entra spavaldamente nell’agone
della vita e chi, deluso, se ne ritira; vi è chi, ritenendosi ormai spacciato,
rinasce grazie a un caso fortuito e chi, pur sentendosi invincibile, non si
accorge di essere vicino alla fine.
Dei vocaboli che languono o che muoiono non si sa chi sia l’artefice
delle loro disgrazie: semplicemente, non essendo più usati, prima continuano a
esistere nei vocabolari con l’aggiunta “arcaico”, che sarebbe come dire che gli
è stata somministrata l’estrema unzione in attesa della dipartita.
Diverso è il discorso per i vocaboli neonati e per quelli che, dopo
momenti difficili, hanno ritrovato lo smalto dei giorni migliori: ciò avviene
per una serie di circostante che possono essere le più variegate, come
l’utilizzo in cronaca giornalistica, in letteratura, su facebook, su twitter e,
soprattutto, in TV.
La televisione, in particolare, costituisce un veicolo di straordinaria
rapidità nella nascita e rinascita di parole per la lingua italiana.
Prima del suo avvento una parola, per arrivare all’onore del
vocabolario, aveva anni, e a volte decenni, di gavetta da fare nei cortili, nei
bar, nei congressi, sulla carta stampata, sui libri, mentre oggi sono
sufficienti pochi, o anche pochissimi, passaggi in televisione per entrare nel
vocabolario o per rinascere.
Questo fenomeno avviene, talvolta, non proprio ad opera di accademici
della Crusca, senza che ciò gli impedisca di incidere sul nostro linguaggio.
Facciamo alcuni esempi.
Inciucio
Questa parola non aveva l’onore del vocabolario, infatti il Devoto-Oli
del 1971 non lo riportava.
Lo riporta invece il Sabatini-Colletti del 1997, dicendo che è un
termine derivante dal dialetto siciliano.
Ma come mai è entrato nel vocabolario? Vi è entrato per un fatto
semplicissimo.
Massimo d’Alema, in un’intervista televisiva, usò la parola inciucio
per intendere imbroglio e, quel giorno, nacque la fortuna del vocabolo.
Questa parola aveva da centinaia d’anni l’onore del vocabolario, ma non
era molto usata e, quando accadeva, lo era in senso negativo, nel senso di
irregolarità, interruzione, scarsa omogeneità, assenza di sicurezza.
Fino al giorno in cui venne pronunciata, anch’essa in un’intervista
televisiva, da tale Giuseppe Follini, detto Marco, il quale disse che il
governo (di cui faceva parte) doveva dare un segnale di discontinuità per
funzionare bene.
Da quel giorno rinacque la fortuna del vocabolo che, nell’occasione,
perdette anche la sua connotazione negativa perché usato, quasi sempre, nel
senso di critica a un governo che era guidato da Berlusconi.
Il verbo azzeccare, ovvero colpire, centrare, è sul vocabolario da
secoli, ma il suo uso è stato rinverdito, anche in questo caso per merito della
televisione, grazie alle riprese di spezzoni di processi condotti da un PM che
diventerà famoso: Antonio di Pietro.
In questi processi egli usava spesso il modo di dire del suo paese “che
ci azzecca?”, che sta, credo, per “cosa c’entra?” ma potrebbe anche voler dire
“colpisco nel segno se dico che?”.
Dopo i processi, quel modo di dire imperversò, e i giornalisti riuscirono in un duplice risultato: introdurre nell’uso comune un’espressione
dialettale e scriverla in modo errato. Infatti, da allora, si legge
l’espressione “che c’azzecca” che, secondo la nostra grammatica, si pronuncia
non “che ciazzecca”, ma “che cazzecca”.
Questi sono solo alcuni esempi che mostrano come i nostri vocabolari
siano soggetti a mutamenti che chiunque può introdurre: è perciò lecito sognare
di potere dare a una parola o a un’espressione, usate da noi o da una persona
cara, il blasone del vocabolario: c'è riuscito perfino Di Pietro!