L’impresa è il frutto
dell’organizzazione dei fattori di produzione al fine di produrre o scambiare
beni o servizi.
Per il codice civile non è
obbligatorio che il risultato economico sia positivo: potrebbe anche essere in
pareggio ma, generalmente, un’impresa viene creata per produrre un utile.
L’impresa svolge un’importante funzione sociale, perché
produce ricchezza non solo per sé e i propri eventuali soci, ma spande
ricchezza sulla società attraverso la creazione di posti di lavoro, le commesse
ai fornitori, il pagamento delle imposte dirette e indirette.
La nostra sinistra ha sempre avuto, con l’impresa, un
rapporto difficile, perché non è mai riuscita a scindere la figura dell’impresa
da quella dell’imprenditore, parola usata pochissimo, che la sinistra in
questione semplificò in “Padrone”, parola che porta in sé una connotazione
dispregiativa e una diffidenza atavica che i compagni, ancora oggi, non sono
riusciti a scrollarsi di dosso completamente.
Insieme a questo aspetto vi era il concetto manicheo che il
“padrone” è sempre cattivo e chi presta la sua opera è sempre buono, e non ci
si rende conto che l’epopea del “Quarto
Stato” appartiene ormai al passato.
Questo modo di vedere le cose ha complicato notevolmente i
rapporti fra lavoratori e “padronato”, mentre lo “Statuto dei Lavoratori” ha
ingessato il mercato del lavoro, tutelando, è vero, chi lavora, ma rendendo
sempre più difficile trovare un lavoro per chi non l’ha.
L’articolo 18, stabilendo che gli obblighi derivanti dal
suddetto statuto siano applicati alle imprese con più di 15 dipendenti, ha
costituito e costituisce tuttora una specie di “tappo” alle assunzioni: infatti
molte imprese medio piccole, per non superare i 15 dipendenti, hanno scelto di
non svilupparsi, oppure di creare altre imprese consorelle sempre
scrupolosamente al di sotto dei 15 dipendenti.
Io credo che alcuni concetti semplici, ma importanti,
stentino a farsi strada nel mondo della sinistra.
Eccoli.
- L’imprenditore,
creando un’impresa, soddisfa, o spera di soddisfare, le proprie aspirazioni
professionali ed economiche. Tuttavia egli svolge, anche se involontariamente,
un’importante funzione pubblica, ma non è necessario che sia un benefattore, è
sufficiente che il suo operato abbia un effetto benefico sulla collettività;
- se l’impresa
funziona bene, l’imprenditore si arricchirà, e buon per lui: se è stato bravo,
o fortunato o le due cose insieme, meglio per lui. Il principio della libertà
d’impresa non può avere condizionamenti diversi dal rispetto delle leggi
esistenti;
- un imprenditore non
è obbligato a intraprendere in un determinato luogo: il luogo più adatto lo
sceglierà tenendo conto di tanti fattori, come le infrastrutture, il costo
della mano d’opera, la distanza dai mercati di approvigionamento e vendita dei
beni o dei servizi;
- chi ha
responsabilità pubbliche dovrebbe cercare di attirare nuove imprese, e dovrebbe
fare l’impossibile per evitare che le imprese chiudano o vadano altrove. Come?
Creando le condizioni in base ai fattori di scelta citati al punto precedente:
rivolgersi a un giudice perché imponga a un’impresa di restare dov’è, cosa che
è successa in Italia, è un esercizio di puro infantilismo.
Riconoscere l’utilità della libera impresa, come veicolo di
creazione di ricchezza, significa riconoscere anche il primato del liberalismo,
perchè nei sistemi autoritari l’impresa non crea ricchezza.
Ovviamente, difendere l’impresa significa difendere il
capitalismo e, di conseguenza, anche i capitalisti.
Un grande giornalista liberale diceva che, per difendere
bene i valori del capitalismo, è meglio non frequentare i capitalisti: sono
d’accordo con lui, tuttavia i princìpi vanno giudicati dai risultati che
ottengono, più che dagli attori sulla scena che cambiano continuamente.
L’impostazione ideologica che ho descritto trapela anche
dalla cronaca politica odierna, che ci regala un’immagine dell’impresa più
simile a un pollo da spennare che a un patrimonio da difendere.