lunedì 5 gennaio 2015

il presidente si dimette

Sta per concludersi, secondo quanto da lui stesso dichiarato con il discorso di fine d’anno, la parabola del Presidente della Repubblica Italiana Napolitano, ovvero l’arbitro dell’unità nazionale, arbitro che, a un certo punto della sua missione, ha incominciato a prendere parte al gioco.
Quando fu eletto, gli avevo accordato la mia fiducia perché credo che, fino a prova contraria, sia giusto credere alla buona fede delle persone.
D’altra parte Napolitano, all’interno di quel monolito che era il PCI, aveva sempre rappresentato il volto più presentabile del comunismo italiano, con un tratto signorile che giustificava la sua leadership dell’ala del partito cosiddetta “migliorista”, diversa, almeno così sembrava, da quella rivoluzionaria di Paietta, il chiassoso “ragazzo rosso”.
E vi era un altro aspetto che mi induceva alla prudenza prima di esprimere giudizi: vi sono persone attivissime e appassionate nell’ambito del proprio partito le quali, trovandosi a capo di una pubblica istituzione che non riguarda più una parte, ma l’intera società, cambiano letteralmente pelle.
Insomma, vi sono uomini che hanno il senso delle istituzioni, e le prime uscite pubbliche di Napolitano non escludevano che potesse far parte di questa schiera, piuttosto ridotta, di uomini.
Ad esempio, quando venne istituito il giorno del ricordo in memoria delle migliaia di italiani perseguitati e uccisi dalle milizie di Tito, Napolitano parlò senza giri di parole delle reticenze colpevoli di chi non voleva ammettere la realtà: si era trattato di una pulizia etnica.
Anche l’ammenda che fece del proprio passato andando a portare fiori sulla tomba di Imre Nagy, il presidente ungherese impiccato dopo la rivolta del 1956, faceva pensare a un cambio di marcia del presidente.
Poi la stagione delle aspettative è finita, e la dura realtà ha lentamente preso il sopravvento.
Nel 2007 il presidente benedisse il comportamento di Follini che, eletto senatore nella CDL – Casa delle Libertà – passò allo schieramento opposto consentendo al governo Prodi di non cadere per un voto, il suo.
La difesa di un voltagabbana, da parte del presidente, non era il massimo, ma si poteva anche comprendere: la caduta di un governo, secondo il presidente, poteva avvenire solo in Parlamento e, inoltre, la nostra bellissima Costituzione dice chiaramente che il parlamentare eletto non ha alcun vincolo di mandato con gli elettori, ai quali può fare “marameo” quando vuole.
Poi il presidente, dopo le elezioni stravinte dal PDL, cominciò a stuzzicare l’ego un po’ abbondante del presidente della Camera Fini, che abboccò, e mandò in malora non solo il PDL, ma anche la grande fiducia che gli elettori avevano riposto in una governabilità targata centro-destra.
Tuttavia, scalzare il governo Berlusconi era difficile, perché in parlamento non veniva mai sconfitto.
Allora il presidente, alla faccia della centralità del parlamento che, nel caso Follini, era intangibile, mandò a casa Berlusconi e chiamò Monti, un cavallo bolso al quale gli italiani pagheranno lo stipendio di senatore finchè vivrà.
Molti dicono che non poteva fare altro, perché c’era lo spread che cresceva, ma la verità, emersa da testimonianze di importanti giornalisti e di ministri di Stati esteri, è che lo spread veniva fatto crescere artificiosamente per cambiare governo senza pagare il dazio delle elezioni, mentre anche il presidente, insieme a Frau Merkel, prendeva parte a questa manovra che con la democrazia non aveva nulla a che fare: veniva infatti mandato a casa chi aveva vinto le elezioni per sostituirlo con chi non aveva vinto nulla, proprio come ai tempi del ribaltone del famigerato Scalfaro, la cui spregiudicatezza sembrava ineguagliabile.
Poi, dopo il fallimento di Monti e le elezioni, andò al governo Letta il quale, per volere del presidente che aveva tanto a cuore la centralità del parlamento, venne sostituito da Renzi senza elezioni.
Che dire di un simile presidente che, con una sequela di frasi precotte e di luoghi comuni, annuncia che sta per dimettersi?
Ci si può solo augurare che il suo successore operi in modo migliore di chi lo ha preceduto, ma purtroppo
c’è un detto, spesso veritiero, secondo il quale il peggio non muore mai.

Che Iddio ci assista!

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