Sta per
concludersi, secondo quanto da lui stesso dichiarato con il discorso di fine
d’anno, la parabola del Presidente della Repubblica Italiana Napolitano, ovvero
l’arbitro dell’unità nazionale, arbitro che, a un certo punto della sua
missione, ha incominciato a prendere parte al gioco.
Quando fu
eletto, gli avevo accordato la mia fiducia perché credo che, fino a prova
contraria, sia giusto credere alla buona fede delle persone.
D’altra
parte Napolitano, all’interno di quel monolito che era il PCI, aveva sempre
rappresentato il volto più presentabile del comunismo italiano, con un tratto
signorile che giustificava la sua leadership dell’ala del partito cosiddetta
“migliorista”, diversa, almeno così sembrava, da quella rivoluzionaria di
Paietta, il chiassoso “ragazzo rosso”.
E vi era un
altro aspetto che mi induceva alla prudenza prima di esprimere giudizi: vi sono
persone attivissime e appassionate nell’ambito del proprio partito le quali,
trovandosi a capo di una pubblica istituzione che non riguarda più una parte,
ma l’intera società, cambiano letteralmente pelle.
Insomma, vi
sono uomini che hanno il senso delle istituzioni, e le prime uscite pubbliche
di Napolitano non escludevano che potesse far parte di questa schiera,
piuttosto ridotta, di uomini.
Ad esempio,
quando venne istituito il giorno del ricordo in memoria delle migliaia di
italiani perseguitati e uccisi dalle milizie di Tito, Napolitano parlò senza
giri di parole delle reticenze colpevoli di chi non voleva ammettere la realtà:
si era trattato di una pulizia etnica.
Anche
l’ammenda che fece del proprio passato andando a portare fiori sulla tomba di
Imre Nagy, il presidente ungherese impiccato dopo la rivolta del 1956, faceva
pensare a un cambio di marcia del presidente.
Poi la
stagione delle aspettative è finita, e la dura realtà ha lentamente preso il
sopravvento.
Nel 2007 il
presidente benedisse il comportamento di Follini che, eletto senatore nella CDL
– Casa delle Libertà – passò allo schieramento opposto consentendo al governo
Prodi di non cadere per un voto, il suo.
La difesa di
un voltagabbana, da parte del presidente, non era il massimo, ma si poteva
anche comprendere: la caduta di un governo, secondo il presidente, poteva
avvenire solo in Parlamento e, inoltre, la nostra bellissima Costituzione dice chiaramente che il parlamentare eletto
non ha alcun vincolo di mandato con gli elettori, ai quali può fare “marameo”
quando vuole.
Poi il
presidente, dopo le elezioni stravinte dal PDL, cominciò a stuzzicare l’ego un
po’ abbondante del presidente della Camera Fini, che abboccò, e mandò in malora
non solo il PDL, ma anche la grande fiducia che gli elettori avevano riposto in
una governabilità targata centro-destra.
Tuttavia,
scalzare il governo Berlusconi era difficile, perché in parlamento non veniva
mai sconfitto.
Allora il
presidente, alla faccia della centralità del parlamento che, nel caso Follini,
era intangibile, mandò a casa Berlusconi e chiamò Monti, un cavallo bolso al
quale gli italiani pagheranno lo stipendio di senatore finchè vivrà.
Molti dicono
che non poteva fare altro, perché c’era lo spread che cresceva, ma la verità,
emersa da testimonianze di importanti giornalisti e di ministri di Stati
esteri, è che lo spread veniva fatto crescere artificiosamente per cambiare
governo senza pagare il dazio delle elezioni, mentre anche il presidente,
insieme a Frau Merkel, prendeva parte a questa manovra che con la democrazia
non aveva nulla a che fare: veniva infatti mandato a casa chi aveva vinto le
elezioni per sostituirlo con chi non aveva vinto nulla, proprio come ai tempi
del ribaltone del famigerato Scalfaro, la cui spregiudicatezza sembrava ineguagliabile.
Poi, dopo il
fallimento di Monti e le elezioni, andò al governo Letta il quale, per volere
del presidente che aveva tanto a cuore la centralità del parlamento, venne
sostituito da Renzi senza elezioni.
Che dire di
un simile presidente che, con una sequela di frasi precotte e di luoghi comuni,
annuncia che sta per dimettersi?
Ci si può
solo augurare che il suo successore operi in modo migliore di chi lo ha
preceduto, ma purtroppo
c’è un
detto, spesso veritiero, secondo il quale il peggio non muore mai.
Che Iddio ci
assista!
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